La parola “leader” evoca spesso immagini tratte dal grande schermo o da ruoli istituzionali. Alcuni pensano a Russell Crowe nel film “Il gladiatore”, che guida la propria legione senza esitazioni contro i barbari. Altri rievocano Elisabetta II, sovrana britannica apprezzata per equilibrio e carisma. C’è chi immagina l’allenatore di una squadra giovanile, capace di dosare fermezza e incoraggiamento, con quel grintoso “Ce la potete fare!” prima del fischio d’inizio. Scaffali di librerie traboccano di manuali sulla leadership, ma l’esperienza diretta mi ha insegnato pochi principi in grado di produrre risultati straordinari, anche in contesti complessi.

In questo contesto, ho individuato quattro pilastri fondamentali:

• Essere presenti. Mostrare vicinanza al team, ascoltare segnali di malfunzionamenti e recarsi dove avviene l’azione.
• Gestire il compito, non la persona. Valutare il livello di preparazione di ciascuno e modulare il supporto richiesto.
• Rimanere autentici. Non fingere atteggiamenti estranei alla propria personalità e agire in coerenza con i valori personali.
• Coltivare un clima di rispetto. Offrire ascolto, mentoring e gratitudine senza trascurare se stessi.

A questo quadro si ispira il termine giapponese Gemba – Go see –, incoraggiamento a osservare direttamente il luogo in cui si crea il valore. Ho visto questo principio applicato in una startup biotech, specializzata in R&S su microrganismi per soluzioni farmaceutiche. I tecnici si trovavano ad affrontare un’ondata di contaminazioni che vanificava settimane di lavoro: l’impazienza cresceva, i protocolli erano rispettati ma i fallimenti si susseguivano.

Il fondatore, ha allora invitato il responsabile di laboratorio a fare un giro con lui, chiedendogli di descrivere cosa vedeva e mostrargli il processo.

All’inizio ha esitato, poi ha tirato un sospiro e ha accettato. Durante il sopralluogo, il fondatore ha posto domande mirate, ha osservato i passaggi di pulizia, ha ascoltato dubbi e suggerimenti. Alla fine ha notato che la nuova soluzione disinfettante non restava a contato a sufficienza per eliminare ogni traccia di contaminante. Quel prodotto era sconosciuto alla maggior parte del personale, non erano state fornite indicazioni chiare sul tempo di azione. Alla domanda: “Cosa pensi si debba fare?” il manager ha proposto una sessione di training specifico per tutto lo staff. Tornati in ufficio, ha predisposto subito il piano di formazione.

In quel caso non sono stati impartiti ordini, non è stato chiesto “come è potuto succedere?” o “in che modo risolverete?”. Il fondatore si è limitato a constatare di persona e a stimolare la soluzione interna, che è arrivata con rapidità ed efficacia.

Un altro aspetto cruciale riguarda la prontezza dei collaboratori nello svolgere compiti specifici. Non è quasi mai questione di scegliere la persona giusta o sbagliata, ma di individuare in quale fase di preparazione si trovi. Il modello che utilizzo si articola in quattro livelli di readiness:

  1. Incapace e demotivato
  2. Incapace ma motivato
  3. Capace ma poco propenso
  4. Capace e motivato

Per chi si colloca al primo livello serve un percorso dettagliato, con passaggi chiari e continui feedback, per eliminare ansie e incertezze iniziali. Al secondo livello, se l’operatore proclama “Scoprirò come farlo”, significa che occorre guidarlo passo passo, facendogli descrivere come agirebbe nei primi step e correggendo eventuali elementi dati per scontati e non corretti. Il terzo gruppo è complicato: la persona possiede competenze ma manca incentivo/emozione per affrontare l’incarico. Sono necessari colloqui individuali per individuare affaticamenti, carichi di lavoro e possibili dissensi. L’ultimo livello, infine, merita piena autonomia: va lasciato libero di agire senza controllo ossessivo, perché consegna risultati di qualità superiore.

Un’altra regola che rispetto è evitare artifici comportamentali: “Fake it until you make it” (Fingi finché accade davvero) non si applica. Non fingete di essere ciò che non siete. Ogni volta che un investitore o un membro del consiglio mi ha consigliato di “farlo in questo modo” o mi ha intimato “devi essere meno così…”, il risultato è stato insoddisfacente. L’unica via è seguire la propria bussola morale: non mentire, non rubare, non ingannare per ottenere vantaggi. Quel senso di giusto o sbagliato si trova dentro ognuno di noi.

Se non guidate un’organizzazione gestita esclusivamente da agenti di intelligenza artificiale, dietro ogni output ci sono persone. Occorre fare in modo che si sentano ascoltate, valorizzate e adeguatamente formate, senza trascurare le loro aspirazioni. Gestire questa dimensione richiede impegno quotidiano, specialmente in strutture ampie, dove diventa fondamentale coinvolgere i manager come moltiplicatori di attenzione.

Ho identificato cinque leve di riconoscimento capaci di accendere la motivazione:

• Riconoscimento verbale
A chi apprezza ricevere un “ottimo lavoro” davanti ai colleghi, una lode pubblica ha un impatto sorprendente.
• Affiancamento
Alcuni chiedono di lavorare a stretto contatto con un referente, per condividere progressi e ricevere orientamenti puntuali.
• Sviluppo professionale
Job rotation, aggiornamenti interni o corsi esterni impediscono di sentire il ruolo come monotono e alimentano la curiosità.
• Incentivi economici
Un bonus, persino assegnato a sorpresa, può risultare la forma più immediata di gratificazione per chi valuta soprattutto il riconoscimento tangibile.
• Tempo di qualità
Un momento di pausa informale, una domanda sincera su famiglia o progetti personali fa sentire molte persone davvero considerate.

Le nottate in bianco e i pasti da asporto tutti i giorni, pensati come segno di dedizione, creano l’effetto opposto. Ho visto che riservare tempo alla famiglia o agli allenamenti rende chi guida più credibile e umano. Non si tratta di tracciare confini rigidi tra lavoro e vita personale, ma di rendere evidente quali priorità contano davvero. Quelle ore extra ci saranno quando serve, purché non diventino prassi.

Guidare un team richiede molto più che elaborare strategia, visione o missione: conta prima di tutto la capacità di tradurre ogni indicazione in azioni concrete all’interno dell’organizzazione.